Vari aspetti qualificanti del testo di legge costituzionale (v. Testo a fronte) appaiono rispondere all’intento di un sostanziale rafforzamento del potere esecutivo o, più specificamente, del Presidente del Consiglio dei ministri, figura che muta significativamente la sua denominazione in quella di “Primo ministro” (cfr. Tavola 1 e Tavola 2).
Il Primo ministro “determina” (non più “dirige”, come nel testo vigente dell’art. 95 Cost.) la politica generale del Governo e “garantisce” (non più “mantiene”) l’unità di indirizzo politico e amministrativo: a tal fine l’attività dei ministri è dal Primo ministro diretta, e non soltanto promossa e coordinata. Ancor più rilevante in tal senso è il potere di nomina e di revoca dei ministri, che lo stesso articolo 95, nel nuovo testo, attribuisce al solo Primo ministro.
Viene meno, dunque, il ruolo riconosciuto al Presidente della Repubblica nella determinazione della compagine ministeriale e, prima ancora, nella scelta del capo dell’esecutivo: il meccanismo di nomina del Primo ministro, come delineato dal nuovo art. 92 Cost., si traduce infatti, nella sostanza, in una designazione del premier da parte dell’elettorato. Non si tratta però di una vera e propria elezione diretta in quanto la candidatura alla carica ha luogo mediante collegamento con i candidati (o con una o più liste di candidati) all’elezione della Camera dei deputati.
In altre parole, il voto per l’elezione della Camera si tradurrà in una dichiarazione di preferenza per il candidato premier formalmente e previamente collegato al candidato o alla lista prescelta. Non è espressamente richiesta (ma neppure è esclusa) la pubblicazione sulla scheda elettorale del nome del candidato Primo ministro. La legge elettorale dovrà comunque disciplinare l’elezione dei deputati “in modo da favorire la formazione di una maggioranza, collegata al candidato alla carica di Primo ministro”.
L’atto di nomina del Primo ministro resta affidato al Presidente della Repubblica, ma la scelta presidenziale non pare presentare significativi margini di discrezionalità: essa ha luogo infatti “sulla base dei risultati delle elezioni della Camera dei deputati” (precisazione che si salda con la precedente, relativa all’obiettivo cui deve tendere il sistema elettorale).
Appare dunque plausibile affermare che, pur non risultando il legislatore ordinario vincolato alla scelta di un particolare sistema elettorale[1], la logica sottesa alla revisione della forma di governo richiede il perseguimento dei due obiettivi che seguono:
§ riconduzione della competizione elettorale ad un confronto tra coalizioni di forze politiche, previamente individuate ed unificate dal collegamento allo stesso candidato alla carica di Primo ministro;
§ necessità che la coalizione prevalente disponga di una maggioranza alla Camera in grado di assicurare la stabilità dell’esecutivo.
La recente L. 270/2005[2] ha introdotto un nuovo sistema per l’elezione della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica, orientato in senso proporzionale e caratterizzato dalla previsione di un premio di maggioranza e di articolate soglie di sbarramento riferite sia alle liste, sia alle coalizioni.
In particolare, ai fini dell’elezione della Camera, la legge ha previsto un sistema elettorale di tipo interamente proporzionale, con l’eventuale attribuzione di un premio di maggioranza in ambito nazionale. Per quanto appare di più immediato rilievo in questa sede, in relazione agli obiettivi poc’anzi segnalati, si ricordano i seguenti elementi:
§ i partiti politici che intendono presentare liste di candidati possono collegarsi tra loro in coalizioni; i partiti che si candidano a governare presentano inoltre il loro programma e indicano il nome del loro leader. I partiti collegati in coalizione depositano lo stesso programma e indicano il nome dello stesso leader;
§ l’elettore esprime un solo voto per la lista di candidati prescelta; non è prevista l’espressione di preferenze;
§ i seggi sono ripartiti proporzionalmente in ambito nazionale[3], tra le coalizioni di liste e le liste che abbiano superato le soglie di sbarramento previste dalla legge[4];
§ alla coalizione di liste (o alla lista non coalizzata) più votata, qualora non abbia già conseguito almeno 340 seggi, è attribuito un premio di maggioranza tale da farle raggiungere tale numero di seggi.
La disciplina proposta per l’elezione del Senato è analoga a quella già descritta con riguardo alla Camera, ma presenta alcune differenze legate alla natura dell’organo, che è eletto “su base regionale”:
§ i seggi sono ripartiti e assegnati in ambito regionale, e le soglie di sbarramento (di entità differente[5]) sono anch’esse riferite al totale dei voti conseguiti nella Regione;
§ è assegnato Regione per Regione anche il premio alla coalizione o lista singola più votata, con l’attribuzione del 55% dei seggi spettanti alla Regione, qualora essa non abbia già conseguito tale risultato.
Ferma restando l’esigenza, nell’ipotesi di entrata in vigore della riforma costituzionale, di una sostanziale revisione di entrambi i sistemi elettorali, e in principal modo di quello per l’elezione del Senato, nel sistema per l’elezione della Camera introdotto dalla L. 270/2005 sembrano trovare qualche riscontro le due indicazioni fornite dal nuovo testo del’art. 92 Cost., secondo cui:
§ l’elezione dei deputati deve favorire la formazione di una maggioranza collegata al candidato alla carica di Primo ministro;
§ il Primo ministro, a sua volta, si candida a quella carica in collegamento con (raggruppamenti di) candidati, o con liste di candidati.
Risponde alla prima indicazione il premio di maggioranza attribuito alla coalizione (o lista) che supera le altre anche di un solo voto; risponde alla seconda (entro i limiti posti dalla Costituzione vigente) la previa indicazione, da parte delle forze politiche, del “capo” delle rispettive liste o coalizioni, in virtù della quale il Presidente della Repubblica, nell’esercitare il suo potere di incarico – che pure, a Costituzione invariata, resta incondizionato – trova un candidato già indicato dalle forze politiche e sostenuto dall’esito del voto.
Quanto ai rapporti con il Parlamento, che appaiono dal complesso delle modifiche sensibilmente trasformati, il rapporto di fiducia, proprio della forma di Governo parlamentare, non viene meno ma interessa, nel nuovo testo costituzionale, la sola Camera dei deputati. Il peculiare ruolo attribuito al Senato federale lo lascia fuori, infatti, dal circuito fiduciario (cfr. Tavola 1 e Tavola 2).
Più specificamente, per quanto riguarda la Camera il rapporto di fiducia permane ma, nella sua fase costitutiva, risulta per dir così “presunto”: il nuovo testo dell’art. 94 Cost., interamente riscritto, non prevede più che il Governo debba avere la fiducia delle due Camere, né dispone che, entro dieci giorni dalla sua formazione, il Governo si presenti alle Camere per ottenerne la fiducia. In luogo di ciò, ai sensi del nuovo primo comma dell’art. 94 Cost. si prevede che il Primo ministro, entro dieci giorni dalla nomina, illustri il programma di legislatura e la composizione del Governo alle Camere. Lo stesso articolo prevede che la Camera dei deputati si esprima sul programma (non sulla composizione del Governo) con un voto, ma non precisa gli effetti di tale votazione, né il termine entro cui deve intervenire.
In particolare, non appare chiaro quale sia l’esito del procedimento nel caso in cui la Camera non approvi il programma presentato dal Primo ministro. Sia dal confronto con l’attuale art. 94 Cost., sia dal confronto con le successive norme del testo in esame che disciplinano le fattispecie della questione di fiducia e della mozione di sfiducia (v. infra), emerge l’assenza, nel voto sul programma, sia della definizione delle modalità (tradizionalmente, per le votazioni che attengono al rapporto fiduciario, l’appello nominale), sia il richiamo a una particolare maggioranza (quella espressa dal risultato elettorale). Tali elementi appaiono differenziare il voto sul programma dalle votazioni che incidono sul rapporto fiduciario.
Ferma restando l’ovvia valenza politica di un voto contrario sul programma, a tale eventualità parrebbe dunque doversi applicare il principio generale di cui al vigente art. 94, quarto comma, Cost., ai sensi del quale “il voto contrario di una o di entrambe le Camere su una proposta del Governo non importa obbligo di dimissioni”; pur se tale comma non compare più nella riformulazione dell’art. 94 operata dal testo in commento (forse perché ritenuto superfluo nel nuovo assetto dei rapporti Governo-Parlamento e in presenza di un’esplicita disciplina della questione di fiducia).
Il Primo ministro presenta ogni anno un rapporto sull’attuazione del programma e sullo stato del Paese.
Una sostanziale innovazione rispetto all’attuale forma di governo consiste nell’attribuzione al Primo ministro del potere di scioglimento della Camera (art. 88, primo comma). Pur se il Presidente della Repubblica mantiene la formale titolarità dell’atto di scioglimento, questo è infatti adottato “su richiesta del Primo ministro, che ne assume la esclusiva responsabilità”.
Il significato dell’ultimo inciso sta nella parola “esclusiva”: escludendo il Capo dello Stato da ogni responsabilità per l’atto di scioglimento, il relativo potere è posto esclusivamente in capo al Primo ministro. Quanto alla natura della responsabilità, non può di norma trattarsi se non della responsabilità politica che il Primo ministro assume non più (ovviamente) nei confronti della Camera, ma direttamente dinanzi ai cittadini, destinata ad un’immediata verifica elettorale.
Si procede analogamente allo scioglimento della Camera in caso di morte o impedimento permanente del Primo ministro, ovvero in caso di sue dimissioni.
Il Capo dello Stato non emana, tuttavia, il decreto di scioglimento se, entro venti giorni dalla richiesta, sopravviene alla Camera una mozione che dichiari la volontà di continuare nell’attuazione del programma e indichi il nome di un nuovo Primo ministro. La mozione dev’essere sottoscritta e approvata, per appello nominale, da deputati appartenenti alla maggioranza espressa dalle elezioni, e in numero non inferiore alla maggioranza dei componenti la Camera (art. 88, secondo comma).
Qualora tuttavia le dimissioni del Primo ministro conseguano all’approvazione di una mozione di sfiducia, ad esse consegue necessariamente lo scioglimento della Camera dei deputati.
La mozione di sfiducia (art. 94, terzo comma) deve essere firmata da almeno un quinto dei componenti della Camera[6], non può essere messa in discussione prima di tre giorni dalla sua presentazione, deve essere votata per appello nominale e approvata dalla maggioranza assoluta dei componenti[7].
Il rigido collegamento tra Primo ministro e maggioranza espressa dalle elezioni emerge anche dalla disposizione che obbliga il Primo ministro alle dimissioni non solo nel caso in cui la mozione di sfiducia sia approvata, ma anche quando la sua reiezione si debba al voto determinante di deputati non appartenenti a tale maggioranza (art. 94, quarto comma).
Alla medesima ratio risponde la disciplina della “sfiducia costruttiva” (art. 94, quinto comma): la Camera ha infatti la possibilità di sostituire il Primo ministro ricorrendo a una apposita mozione, che può essere tuttavia presentata e approvata solo “da parte dei deputati appartenenti alla maggioranza espressa dalle elezioni in numero non inferiore alla maggioranza dei componenti della Camera”.
Come si vede, il concetto di “maggioranza espressa dalle elezioni” assume nel sistema illustrato un rilievo determinante. Pur se il testo non reca una definizione di tale concetto, sembra evidente – principalmente alla luce dell’art. 92, comma 2, nel nuovo testo – che l’espressione fa diretto rinvio al meccanismo elettorale. Appartengono a tale maggioranza i deputati che, al momento del voto, risultavano (uti singuli o in quanto inclusi in una lista) formalmente collegati al candidato alla carica di Primo ministro, poi nominato tale in esito alla vittoria elettorale.
Per il sistema rileva, dunque, l’appartenenza ad una maggioranza che deve necessariamente formarsi al momento del voto e per effetto di questo; non in un momento (anche se di poco) successivo e in ambito parlamentare, come avviene per la maggioranza che, nell’attuale forma di governo parlamentare, emerge dalla votazione iniziale sulla fiducia (votazione che, non a caso, il testo in esame non contempla).
Il rapporto fiduciario[8] ha quale primo interlocutore questa maggioranza. Con il che si vuol dire che il formarsi di maggioranze diverse o alternative in corso di legislatura non può condurre se non allo scioglimento della Camera e al ricorso a nuove elezioni.
Riassumendo quanto sin qui esposto al riguardo, il Primo ministro:
§ può in ogni momento disporre lo scioglimento della Camera;
§ può essere sfiduciato dalla Camera, ma ciò comporta lo scioglimento di quest’ultima;
§ non può formalmente sostituire (con la reiezione di una mozione di sfiducia) la maggioranza espressa dalle elezioni con un’altra maggioranza (pena l’obbligo di dimissioni);
§ non può essere sostituito se non dalla maggioranza espressa dalle elezioni.
Alla luce di quanto detto, andrebbe infine valutato l’impatto della riforma sul principio del divieto di mandato imperativo sancito dall’art. 67 Cost..
Anche se formalmente conferma il divieto del mandato imperativo, il testo di riforma in commento pone infatti in tale rilievo l’appartenenza dei deputati alla coalizione vincente – al punto da vincolare la sostituzione del premier a una mozione promossa dalla maggioranza di essi – che più di un autore, in dottrina ha segnalato l’esigenza di un coordinamento tra tale disposizione e il principio di libertà dal mandato[9]. Basti pensare che l’eventuale passaggio di un deputato, nel corso della legislatura, da un gruppo parlamentare di maggioranza ad uno di opposizione o viceversa risulterebbe irrilevante ai fini dell’appartenenza o meno del deputato a tale maggioranza.
Quanto alla posizione del Governo in Parlamento, si aggiunga che:
§ il Primo ministro può porre la questione di fiducia alla Camera nei casi previsti dal suo regolamento (sono comunque escluse le leggi costituzionali), chiedendole di esprimersi, con priorità su ogni altra proposta, conformemente alla proposta del Governo. In caso di voto contrario, il Primo ministro si dimette;
§ il Governo può inoltre chiedere ad entrambe le Camere l’esame, entro tempi certi, dei disegni di legge da esso presentati o fatti propri; decorso il termine può chiedere, limitatamente alla Camera dei deputati, il “voto bloccato” (sugli articoli e finale) nel testo da esso proposto o fatto proprio (art. 72, quinto comma, Cost.).
Quanto al Senato federale, benché questo – come si è detto – rimanga estraneo al rapporto di fiducia, il permanere di costanti e incisivi rapporti con il Governo, dei quali si ha espressa menzione in più parti del nuovo testo, appare un dato fisiologico, tenuto conto delle funzioni attribuite a tale ramo del Parlamento e, in primo luogo, dell’ampio spazio ad esso assegnato nell’esercizio della funzione legislativa.
Pare volta ad assecondare tale dinamica l’introduzione, nel procedimento legislativo “monocamerale” nelle materie di competenza del Senato, della previsione secondo la quale il Governo può dichiarare che talune modifiche sono essenziali per l’attuazione del suo programma (approvato dalla Camera dei deputati) o per la tutela delle istanze unitarie della Repubblica. Tale dichiarazione è sottoposta ad autorizzazione da parte del Capo dello Stato: qualora, entro 30 giorni, il Senato non accolga le modifiche proposte, il disegno di legge è trasmesso alla Camera che decide in via definitiva a maggioranza assoluta (v., più ampiamente, scheda Il procedimento legislativo).
L’art. 53, co. 3, del testo della legge costituzionale reca una disciplina transitoria del rapporto di fiducia, in attesa del necessario adeguamento della legislazione elettorale alle nuove disposizioni costituzionali sulla forma di governo.
In questa fase:
§ il Governo, dopo la formazione, dovrà ottenere la fiducia della sola Camera dei deputati (e non di entrambe le Camere, come attualmente previsto e diversamente da quanto avverrà a regime, quando non sarà più richiesta la fiducia esplicita della Camera dei deputati);
§ non trova applicazione la disposizione che prevede il trasferimento dal Senato federale alla Camera di un disegno di legge, qualora il primo non accolga le modifiche proposte dal Governo e da esso ritenute essenziali per l’attuazione del programma;
§ non trova applicazione la nuova disciplina dello scioglimento della Camera dei deputati, ma quella prevista dal testo attualmente vigente dell’art. 88 Cost..
[1] Il riferimento testuale ai (singoli) candidati ovvero a (una o più) liste evidenzia l’intento di non evidenziare preferenze verso un particolare sistema elettorale (maggioritario uninominale o proporzionale sulla base di liste o coalizioni di liste).
[2] L. 21 dicembre 2005, n. 270, Modifiche alle norme per l'elezione della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica.
[3] Con il metodo “del quoziente intero e dei più alti resti”.
[4] Sono previste soglie di sbarramento per le coalizioni nel loro complesso (10% del totale dei voti validi), per le liste che non facciano parte di una coalizione ammessa alla ripartizione (4%), e per le liste che ne facciano parte, ai fini della ripartizione dei seggi già assegnati alla coalizione (2%. È inoltre ammessa alla ripartizione la lista che ha ottenuto il risultato migliore tra quelle che non hanno raggiunto la soglia del 2%. Particolari disposizioni regolano l’accesso al riparto delle liste rappresentative di minoranze linguistiche riconosciute.
[5] 20% per le coalizioni; 8% per le liste per le liste che non facciano parte di una coalizione ammessa; 3% per le liste facenti parte di una coalizione ammessa alla ripartizione.
[6] Cioè (a regime) da 104 o 105 deputati (a seconda del numero di deputati a vita). Il vigente art. 94 Cost. fissa la soglia di un decimo dei componenti (pari a 63 deputati).
[7] L’art. 94 Cost. nel testo vigente non richiede una maggioranza qualificata.
[8] Che dunque assume caratteristiche sue proprie: non ha origine in Parlamento e (si potrebbe forse affermare) intercorre a rigor di termini, prima che tra il Governo e la Camera, tra il Primo ministro e la sua maggioranza, entrambi predeterminati dall’esito elettorale.
[9] V. sezione Dottrina. Per una disamina degli aspetti del progetto di riforma che riguardano l’art. 67 Cost., v. ad es. S. Curreri, Rappresentanza politica e divieto di mandato imperativo nel progetto di riforma costituzionale, in “Forum di quaderni costituzionali”, 24 febbraio 2004. Dubbi sulla compatibilità con l’art. 67 Cost. sono stati espressi da Leopoldo Elia nella audizione presso la 1ª Commissione (Affari costituzionali) della Camera il 21 maggio 2004.